giovedì 6 novembre 2014

INTERSTELLAR


 


Anni fa, sempre nella splendida cornice dell' Arcadia di Melzo, visionai quasi per caso "Armageddon". Peccato di gioventù, pruriginoso contrapasso per le nottate in bianco davanti a Fuoriorario. Bei tempi mi verrebbe oggi da dire.

Nel progresso tecnologico compiuto anche nelle sale italiane con l'agognata digitalizzazione fredda e lineare, una voce si erge solitaria come bastiancontrario. Il paladino ha il nome di Christhoper Nolan. E per l'occasione nell'arena famosa di Melzo oltre la proiezione in definizione 4K si presenta la pellicola nel formato straordinario del 70 mm. Aria di romanticismo per pochi eletti che credono ancora fermamente nella storia tecnica del cinema che fu, oltre che in un'esile ma esistente supremazia di colore e contrasto sullo schermo, a fronte di leggeri difetti di grana e piccole imprecisioni di fuoco. Il calore di una matrice chimica contro la perfetta freddezza di un segnale virtuale. Per i pochi appassionati una gara impari, per il grosso del pubblico un' inezia su cui soprassedere, o meglio, trascurare. Torniamo a noi, alla nuova opera top secret del genio del blockbuster moderno Nolan. Squilli di tromba, occhi sgranati, aspettattive moderate per un autore da sempre capace di giocare con la mente e lo sguardo dello spettatore attraverso le mirabolanti architteture sognanti di "Inception", le decadenti atmosfere di Gotham City, piuttosto che le labirintiche danze del montaggio asincrono di "Memento". Anche se per il sottoscritto il suo gioiello rimane l'omaggio spudorato, avvolgente, tagliente al Tesla di "The prestige". Chi non delude, chi osa senza paura, chi alza l'asticella continuamente può rischiare di cadere; e la caduta in casi del genere diventa boato, abisso. Sarebbe riduttivo affrontare "Interstellar" come un polpettone sci-fi pretenzioso, noioso e senza nè capo nè coda. E' molto di più. Oltre ad una storia sfilacciata, fiacca e senza minimo climax promette un viaggio che non si vede l'ora termini. Passino i buchi neri in sceneggiatura, i dialoghi risibili, il melodramma familiare senza tregua; ma quello che non riesco ad accettare è la mancanza del gusto dell'inquadratura. Nolan...pronto? Dove sei finito? Possono bastare alcune scene nello spazio siderale, qualche fotografia in panoramica per colmare la delusione? Certo che no. La montagna ha partorito un topolino. Guidati da una regia così imbolsita anche gli attori latitano, fanno quello che possono, alternati tra banalità da albi Harmony e disertazioni da fisica quantistica improponibili. Molti passaggi a vuoto conditi da silenzi assordanti o da parole peggio che gridate. L'ennesima delusione di un'annata che non decolla, forse di un ultimo quinquennio avaro di soddisfazioni artistiche, soprattutto dal versante statunitense.
Uscito dalla sala provato e zittito non porto con me neppure un'immagine negli occhi, nel cuore. Una pellicola che promette nell' incipit noioso e sconfusionato ciò che nel cammino diventa montagna, anzi onda anomala gigante.
Più volte citato viene voglia di rivedere "2001: Odissea nello spazio" per filosofeggiare sui viaggi spazio-temporali piuttosto che "Gravity" per lasciarsi cullare da immagini suadenti e meravigliose per fluttuare sognando nello spazio profondo. Qui siamo lontani anni luce da entrambi. L' odissea di True Matthew Dectetive si contorce su sè stessa senza un minimo di interesse per sè, nè per la povera Terra abitata da agricoltori tristi e malinconici. Colonna sonora minimal; Ligeti era di un'altra galassia ovviamente. Doppiaggio come quasi sempre inascoltabile, oltre che fastidioso per alcuni personaggi già di per sè mal caratterizzati. Matt Damon qui reduce da "Team America".
Indegna fine della proiezione in pellicola. Rivaluto in chiave trash il sacrificio eroico di Willis accompagnato dalle lacrime della figlia Tyler mentre il padre gorgheggia note di una delle seriali song degli Aerosmith. Grasse risate, ma almeno un'emozione cazzo.
Spazio...ultima frontiera.

martedì 30 settembre 2014

LUCY (Ovvero...prima vedevo ora ero cieco)

Besson Luc. Prima o poi dovevo rendere omaggio, o meglio, indagare su un cineasta con il sogno smisurato di americanizzare sempre il suo gusto europeo. Enfant prodige del cinema d'Oltralpe con gli adrenalinici inizi di "Nikita" e "Leon", suo capolavoro, perde nel tempo smalto e tocco per diventare produttore di successo con pellicole di azione e fantasy. S'ispira a Spielberg senza esserlo, cerca una terza via tra il gusto continentale e quello stelle a strisce con più successi che fiaschi; riesce in quello che crede, non delude i fans più incalliti, allontana quelli credenti in un percorso autoriale che si arena. In mezzo alle parentesi fantastiche de "Il quinto elemento" e "Arthur" trova la propria fortuna in eroine più o meno dure e pure, saltando da sicarie redente alla invasata figura nientemeno di Giovanna D'Arco, alla topolina Matilde del killer Leon, passando dal Nobel Saan Su Kyi, fino alla Johansson di quest'ultima incarnazione. Vede rosa e sfodera il meglio il nostro. Aiutato certo sempre da attrici di livello straordinario; Lucy senza il corpo ed il volto di Scarlet sarebbe molto meno suadente. Aggiungerei la voce...ma torniamo al dibattito acceso con il film di Jonze "Her"; una timbro, una sensualità, una recitazione. Siamo, o meglio forse avevamo, la migliore scuola di doppiaggio del mondo ma ci ritroviamo spesso a fare più danno che altro nel mondo della celluloide. Sulle serie tv poi meglio tacere. Appurato che il nostro Besson può non piacere ma bisogna riconoscergli palle e stile. E quando trova una musa torna a graffiare, anche se in un gioco forse eccessivamente usa e getta. La cinetica di questa sua ultima opera fin dalla durata perfetta della novantina di minuti scorre impavida e senza soste, ma anche con estrema facilità di dimenticanza. Eccelle nel videoclip, ma difetta nella costruzione d'arte dell'immagine stessa. In poche parole il Besson ritrova equilibrio formale ma si dimentica l'aggiunta autoriale. Come risultato meglio il bisfrattato da noi "Adèle e l'enigma del faraone", curato adattamento di una graphic novel di interesse indubbio. Qui l'adrenalina corre senza tregua ma alterna situazioni ben riuscite, buffe in alcuni casi come marchio di fabbrica ( Jeaunet certo gli fa le scarpe su questo territorio...), ad altre poco efficaci, per non dire banali se non risibili senza volontarietà. Una pellicola usa e getta per intenderci. Attrae per tematiche e messa in scena, intontisce per effetti visivi e sonori, mantiene in parte le promesse, ma poco dopo la visione si dimentica facilmente. Chapeau per il cattivo di turno, l'Oldboy coreano capace di caratterizzare il ruolo; scena cult il recupero della missiva con tanto di acrobazie fluide manovrate dal circuito neurale della bella Scarlet. Film furbo per un pubblico da fast food mentale. Furbo come il Besson sempre più produttore-regista, sempre meno autore; e se "The lady" è la sua idea di cinema d'essai meglio rivedersi il coraggio sfrontato di Milla/Jeanne D'Arc. Prendere o lasciare. A me sinceramente non spiace. Ma ha fatto il suo tempo; o meglio, ha scelto di essere burattino e non burattinaio. Peccato.



P.s. Omaggio alla genialità demenziale di Maccio Capatonda il trailer della pasticca al contrario...Besson aggiornati!

martedì 3 giugno 2014

MALEFICENT

"La gente fortunata, così è detto,
  incontra la fortuna pure a letto."

Così si conclude una delle più famose versioni antecedenti la fiaba poi divenuta definitiva come la conosciamo oggi di Perrault, ovvero "La bella addormentata nel bosco". Fonte di inesauribile interesse oltre che d'ispirazione il saggio sempre evergreen di Bruno Bettelheim dal titolo esauriente: "Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe". Doverosa la citazione per affrontare un 'opera cinematografica che rientra in un piano attuato dalla potenza Disney per ora purtroppo terribilmente fallimentare; il giochino è quello di prendere in ordine quasi cronologico i classici di animazione che hanno incantato milioni di generazioni trasformandoli con le tecnologie odierne in live-action spettacolari, rigorosamente nella confezione del 3D imperante. Antecedente "Alice in wonderland", forse il peggior titolo dell'intera carriera registica del promettente Burton, con un Depp al declino divistico, straordinariamente invadente in gigioneria ormai insostenibile. Sulla carta, come in altri famosi progetti della storia del cinema, l'autore giusto per poetica e sensibilità, partorisce infine un topolino anoressico e grigiastro. La pellicola vivendo sulla scia dello straordinario successo di "Avatar", uscito pochi mesi prima, beneficia della novità 3D incassando al botteghino una cifra esorbitante, dando purtroppo in là a una serie di film che paradossalmente invertiranno in un lampo la fortuna della nuova, vecchia in realtà, tecnologia. Lezione sia per i grandi studios sia per gli spettatori esigenti: non tutti si chiamano James Cameron e se si vuole fare i furbetti si accettino poi le conseguenze; il film di Burton ,come i seguenti in 3D, per sfruttare l'onda  era stato girato normalmente e poi gonfiato in stereoscopia con un semplice programmino del pc, generando un effetto posticcio e alquanto deludente dopo la foresta di Pandora che aveva riempito i sogni e gli occhi di tutti gli spettatori del mondo. Con ciò anche i migliori effetti speciali di questo mondo hanno pur sempre bisogno di una bella storia per brillare e trovare casa adatta; ricordiamoci che non sono fini a sè stessi, ma sono strumenti imprescindibili sì ma pur sempre solo strumenti. Se diventano l'elemento fondamentale come nei blockbuster hollywoodiani degli ultimi anni riempiono gli occhi, ma inaridiscono il cuore. Eccoci arrivare al dunque, alla cara Malefica che nella pellicola d'animazione del 1959 era l'incarnazione del Male assoluto, nonchè il personaggio cardine dell'intera fiaba omonima, nonostante le licenze che allora già la Disney si era presa. Qui con la splendida incarnazione della star Jolie promette faville e regala sbadigli. Demerito di una sceneggiatura debole e troppo lineare, di una regia poco ispirata e di personaggi veramente per nulla memorabili, anzi nel caso delle fatine a dir poco irritabili. Ora la domanda sorge spontanea...mancano sceneggiatori capaci o in realtà mancano spettatori preparati? Questi blockbuster sono lo specchio dei nostri tempi, e questi tempi richiedono prodotti preconfezionati, digeribili in fretta, spettacolari ma non riflessivi, per alimentare una bolla di vacuità elementare in un mondo di prodotto superficiale. Qualche sussulto ogni tanto arriva dal mondo dei superereoi con materiali più sofisticati, ma se si gioca nel campo delle famiglie meglio non rischiare; finiti i tempi magnifici della Pixar con capolavori che resteranno nella storia dell'animazione. Qui basta un pizzico di gotico, il physique du role della Jolie, una fiaba famosa anche se stravolta e il piatto è servito. Freddino. Peccato. Poco condimento. Sul piano filologico è una debacle per via della perdita costante del significato originale delle fonti, stravolgendole a proprio piacimento per darle in pasto ad un pubblico sempre meno attento e sempre meno bisognoso di approfondimenti, sballottato tra un prodotto e il seguente, a volte senza neppure il tempo materiale per riprendersi. Trailer, pubblicità alla radio, cartelloni in città, passaparola, figli che reclamano la visione senza se e senza ma. Ci hanno fatto diventare diabetici. La notte dei morti viventi. L'allegoria del mondo di oggi. Perdiamo la complessità, la ricchezza stratificata dei documenti orali, della scrittura prima delle immagini. La riflessione perde velocità nell'immediatezza della visione, troppe poche volte visionarietà. Le fiabe dei Grimm, spaventose e terrificanti alla radice, vengono snaturate e dimenticate; la morale odierna, perversa e superficialmente trionfante, cerca e trova redenzione nel Male relativo, dimenticandosi di rappresentare il Male assoluto, quello che invece il vecchio ordine esaltava senza giustificarlo per renderlo reale, tangibile. Per ricordarci che esiste e che va combattuto, debellato a costo di sacrifici e lotta continua. In questo la pellicola del 1959 è avanti anni luce a quella odierna; o forse è questa che è tornata ai secoli bui? In attesa del prossimo adattamento di "Cinderella" non posso fare altro che constatare che negli ultimi anni la vera libertà creativa si è sempre più spostata in tv, soprattutto nelle reti via cavo statunitensi. Basta per rimanere in tema citare la serie "C'era una volta", non un cult certo ma capace di presentare un lavoro dignitoso, rispettoso perchè rielaborato con passione e intelligenza. Nel passato della celluloide ripesco il flop di Scott "Legend", pasticcio al ralenti sì, ma quanta classe nell'inquadratura d'autore, mancante ai mestieranti odierni; o il piccolo capolavoro "Labyrinth", partorito da quel genietto di Henson, ancor oggi baluardo del fiabesco gotico dark. Le alternative a questo stillicidio da appiattimento culturale
ci sono ma vanno cercate con il lumicino nel passato e con il recupero consapevole degli strumenti adatti per capire e tramandare il significato delle favole. Meritiamo tutti di più da queste operazioni commerciali, bimbi compresi. Soprattutto oggi dove tutto l'entertaintment è un grande fratello globale. La Jolie lo sa e ha le sue buone colpe; ci fa credere che le streghe cattive non esistono o meglio non lo sono mai del tutto, perchè hanno una genesi. Invece mai come ora il Male è senza giustificazioni. Malefica perde le sue ali non per vendetta ma per distrazione. Rieduchiamoci ed educhiamo alla riflessione dietro alla visione, attraverso una critica sì morale ma anche analitica e passionale. Il mondo incantato non può essere svenduto in modo così banale e becero. Difendiamolo attraverso letture e visioni che lo alimentino e lo valorizzino sia come evasione sia come metafora della lotta tra luci e ombre del nostro mondo interiore. Om mani padme hum.





"Guai a chi costruisce il suo mondo da solo.
  Devi associarti a una consorteria
  di violinisti guerci, di furbi larifari,
  di nani del Veronese, di aiuole militari,
  di impiegati al catasto, di accòliti della Schickerìa.
  E ballare con loro il verde allegro dello sfacelo,
  le gighe del marciume inorpellato,
  inchinarti dinanzi al volere del cielo.
  Guai a chi sulla terra è sprovvisto di santi,
  guai a chi resta solo come un re disperato
  fra i neri ceffi di lupi digrignanti."

  Angelo Maria Ripellino

giovedì 24 aprile 2014

HOLY MOTORS

Un sogno; un gioco; una riflessione; una boutade. Tutto questo, ancor di più o forse meno, è quest'opera così stramba, carica, imprendibile. L'autore dell'indimenticabile "Les amants du pont neuf" torna dopo svariati anni di esilio da sè stesso e dal mondo stereotipo con un oggetto non identificato degno del miglior universo immaginifico possibile. Un omaggio alla settima arte attraverso la storia di un uomo, attore, feticcio trasformista; prestato al gioco un Denis Levant monumentale, che si iscrive con perentorietà nel mondo surreale dei migliori sogni/incubi cinematografici di sempre. Un pizzico di Lynch meno visionario, uno scorcio di Cronenberg meno ficcante, una spolveratina di Resnais con un'indimenticabile Kylie Minogue come musa, un gusto unico e sfuggente per un viaggio faticoso ma imprescindibile, indimenticabile, verso l'inconscio del nostro piacere filmico. Con il gusto provocatorio di Von Trier spogliato della sua immediata, trasparente polemica, la pellicola viaggia sotto pelle crescendo di fotogramma in fotogramma fino ad un finale che alimenta dubbi, lascia esterefatti, delude senza lasciare l'amaro in bocca, esalta la genialità del cinema come arte dell'impossibile, del possibile mascherato come finzione aberrante ma credibile sullo schermo traforato.

 

Uno schiaffo artistico capace di risvegliare l'amore più profondo per il gusto europeo di un'autorialità troppo spesso soffocata dall'imperialismo becero americano, dalla necessità rindondante di spiegare tutto e subito per una fruizione immediata del senso, quindi snaturata e vile al fine di impoverire il gusto già livellato dello spettatore/consumatore medio. Le maschere di Carax sono le infinite proiezioni dell'Io nascoste nella psiche profonda di ogni spettatore che cerca la Verità nell'opera cinematografica. Da vedere, rivedere, riflettere/si, senza aver paura come nei miglior labirinti di non trovare subito o mai l'uscita; Kubrick docet, ma qui il respiro è omaggio a tutto ciò che esula dal precotto. Come Krishnamurti asseriva..."...libertà dal conosciuto".

martedì 8 aprile 2014

HER

Oggi realizzo un sogno. Quello di fare come parte dei critici in circolazione, ovvero scrivere di una pellicola che non ho visto. Potrei basarmi su recensioni lette, su giudizi e opinioni sentite; potrei copiare ed incollare pezzi presi da vari blog...perchè no? L'abilità di molti è di rendere proprie le idee partorite e masticate da altri, magari anche impreziosendole con una sintassi migliore.
Al di là di questo preambolo inutile vi spiego perchè vorrei vedere tanto "Her" ma non posso perchè farei un torto all'opera in sè e di rimando offenderei me stesso e quello in cui credo. E per farvelo capire affronto uno dei temi più spinosi per la cinematografia italiota, ovvero il doppiaggio. Che siamo tra i milgiori al mondo o forse i migliori non è un mistero; provate a mettere nel lettore dvd o blu-ray un disco e a cambiare di volta in volta le lingue del parlato cercando di rimanere seri... Da decenni le nostra scuola in merito è un eccellenza, anche se ultimamente, come ogni fisiologico ricambio, sforna continuità qualitativa senza picchi di straordinarietà come ai tempi di Amendola e soci. Tutti conoscete le sfumature della voce di Al Pacino e di De Niro grazie a questa leggenda che fu; e chi si può dimenticare la voce stupida e suadente di Homer dei Simpsons, un Accolla passato a miglior vita gettando la sua dietro ad un vizio malsano. Ma la domanda vera è questa: chi conosce la vera voce di Al Pacino e quella di Bob?
Senza soffermarci sulla tecnica del doppiaggio, sul fatto che di solito gli attori sia di cinema sia di teatro riescono ad "interpretare" una voce adeguandola alla scena, scegliendo di vedere un'opera in lingua originale scegliamo di immergerci totalmente nel mondo pensato dagli artisti coinvolti. Ecco perchè molte pellicole si apprezzano ed altre adirittura cambiano nella versione originale piuttosto che doppiate. Senza contare che quasi sempre il doppiaggio tende anche a minimizzare o adirittura a cancellare i suoni e i rumori presenti in molte scene, creando un effetto imbuto che impoverisce la suspance, la tensione o solo il coinvolgimento emotivo. Alle numerose persone che mi dicono che non sanno la lingua e che hanno difficoltà a seguire i sottotitoli rispondo sempre che è questione di abitudine; più se ne vede più diventa automatico associare le due cose. Abbiamo un cervello evoluto, ma a volte ce ne dimentichiamo, chiudendoci in una comoda pigrizia.
Ora torniamo alla nuova fatica di un cineasta interessante ed originale come Spike Jonze, per intenderci quello di "Essere John Malkovic" e del sottovalutato "Il ladro di orchidee" che vi invito a recuperare e ad aprezzare nella sua disarmante audacia. Questa ultima sua opera parla di un rapporto tra una persona ed una voce. Questa voce è quella dell'attrice Scarlet Johansson nella versione originale. La voce di lei ha vinto numerosi premi e per un pò di tempo è stata in discussione per una possibile nomination all'Oscar.
Ora cari amici mi chiedete di vedere un'opera tanto coraggiosa doppiata in una lingua diversa, con una voce diversa, snaturando l'intera operazione? IO NON CI STO!
Per di più l'infelice scelta ricade su Micaela Ramazzotti, attricetta virziana caruccia ma già per mio conto debole nella recitazione, tanto meno poco dotata di una voce ricordabile. Ecco come il disastro è servito. E per chi vuole entrare ancor più in profondità anche la voce di Phoenix, non il suo solito doppiatore, è poco associabile al personaggio. Brutta storia. In questo caso tocchiamo l'apice, ma purtroppo numerose volte non possiamo godere della straordinarietà di performance attoriali di elevata qualità per cocciutaggine, pigrizia, abitudine.
Guardo alla vicina Francia come un eden della settima arte dove i film esteri vengono proiettati in orari differenti lasciando allo spettatore la possibilità di scegliere tra la versione originale sottotitolata e quella doppiata; questa si chiama cultura. Mi riaggancio a questo per invitarvi, chiaramente a chi può interessare il film in oggetto, a recarvi al cinema Verdi di Candelo dove gli amici Arrigo e Michelle, sempre attenti a dare un servizio di prima qualità, presenteranno "Her" in versione originale sottotitolata. Che sia l'inizio della possibilità di evolverci? Un plauso a loro, uno stimolo per noi, uno schiaffo allo spettatore dormiente. Io sarò in prima fila. Forse quarta...meglio. Magari il film mi piacerà molto o magari non mi convincerà, ma la cosa importante è che lo vedrò nel modo pensato e realizzato dal regista. Pensate alla "Grande Bellezza" nel personaggio di Jep Gambardella doppiato da Matt Damon??!!




giovedì 27 febbraio 2014

12 ANNI SCHIAVO

Eccoci al dunque. Dopo due egregie
pellicole come "Hunger" e "Shame" la poetica visionaria di McQueen si arena nella classica opera tributo a valori più alti, non criticabili se non per passare indelicati, o peggio mostruosi. L'operazione puzzava già dai nomi coinvolti, ma l'esito è veramente desolante. Ennesima delusione degli ultimi tempi cinematografici, giustamente premiata da un'ondata di Oscar meritati visti i tempi oscuri. Corona l'ambita corsa ai premi un concorrente come "American Hustle", scimiottatura ben fatta di opere scorsesiane di altri tempi. "Gravity" non è un capolavoro ma almeno ha il buon gusto di essere tecnicamente rivoluzionario e quindi apportare ossigeno allo spettatore sfiduciato degli ultimi tempi. Un libro dimenticato con tanto di storia straordinaria fa da sfondo a questo drammone che guarda ai classici senza reinventarli e ricatta lo spettatore più volenteroso con un girone infernale violento e sadico. Che sia un marchio di fabbrica del regista non c'è dubbio, ma mentre nei precedenti film risultasse conforme alle storie, qui deborda senza diventare arte, senza appassionare, senza ripulire fino in fondo l'idea che tutto sia studiato, eccessivo come i personaggi caratterizzati a partire dal protagonista fino ad un attore feticcio come Fassbinder qui in versione mefistofele e un Brad Pitt incarnante l'illuminismo successivo. Regia solida e classica per un regista ribelle fino a qui, schematismo senza sussulti ,strizzata d'occhio all'Academy con un finale tra i più deludenti degli ultimi anni per opere di questo genere. Un vero peccato davvero per la squadra messa in campo, ma l'aria pesava già dal primo allenamento. Lontano dalla spettacolarizzazione di Spielberg non vale un pensiero illuminante di quanto con ironia e genialità non abbia espresso Tarantino in "Django unchained". Ecco perchè il cinema ha bisogno di narratori più che di registi. Se poi sono la stessa persona, autori nonchè visionari gioiamo con fervore. Aspettiamo McQueen alla prossima prova, sperando di nuovo smarcato da produzioni a lui poco consone.

P.S. Ho scelto apposta la orribile gigantografia dell'edizione italiana per testimoniare un marketing aberrante con Pitt angelico stile rappresentazioni Padre Pio. O Padre Maronno?!

giovedì 13 febbraio 2014

ALI' HA GLI OCCHI AZZURRI

Sulle note di Gigi D'Alessio la giovane coppia mista formata da Nadir, immigrato islamico di seconda generazione, e della sua fidanzatina romana sembra trovare un lieto fine che un finale aperto rinvia, o forse allontana per sempre. Alì ha gli occhi neri come la profonda appartenenza del suo popolo alle radici della sua religione; attraverso le lenti a contatto azzurre tenta, cerca un'integrazione gettando un ponte tra due culture, stili di vita che dapprima abbraccia, poi riflette. La periferia romana pennellata attraverso comprimari realistici che comunicano un vissuto vero, vuoto, dirompente nella violenza che caratterizza quasi ogni gesto quotidiano. Rifuggono la mestizia della famiglia egiziana del ragazzo e le parentesi affettuose tra adolescenti in cerca di una via di fuga da un futuro scritto, pericoloso, asettico. I ragazzi emulano i meccanismi perversi degli adulti tra discriminazioni, gerarchie, violenze taciute. Un'opera stratificata che fotografa una realtà in divenire, una regia solida, senza sbavature, che accompagna i suoi personaggi verso la ricerca di una felicità forse illusoria. Un piccolo saggio sociologico che dovrebbe essere proiettato nelle scuole. Un piccolo grande film che ha il merito di fare riflettere e porre domande su ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. La continua ed incessante ricerca di una verità nascosta in ognuno di noi; le famiglie che impongono, anche solo dolcemente, e non comprendono. Amano i loro figli ma non riescono a mettersi in linea con i tempi; questi tempi sempre più bui, complessi e aridi di speranze per il genere umano. Abbiamo tutti gli occhi neri, ma cerchiamo in ogni dove di averli azzurri per sfuggire ai nostri destini.

A Jean-Paul Sartre, che mi ha raccontato
la storia di Alì dagli Occhi Azzurri 
............................Era nel mondo un figlio 
............................e un giorno andò in Calabria:
............................era estate, ed erano 
............................vuote le casupole, 
............................nuove, a pandizucchero, 
............................da fiabe di fate color 
............................della fame. Vuote.
Come porcili senza porci, nel centro di orti senza insalata, di campi 
senza terra, di greti senza acqua. Coltivate dalla luna, le campagne. 
Le spighe cresciute per bocche di scheletri. Il vento dallo Jonio
............................scuoteva paglia nera 
............................come nei sogni profetici: 
............................e la luna color della fame 
............................coltivava terreni 
............................che mai l’estate amò. 
............................Ed era nei tempi del figlio 
............................che questo amore poteva 
............................cominciare, e non cominciò. 
............................Il figlio aveva degli occhi 
............................di paglia bruciata, occhi 
............................senza paura, e vide tutto 
............................ciò che era male: nulla 
............................sapeva dell’agricoltura, 
............................delle riforme, della lotta 
............................sindacale, degli Enti Benefattori, 
............................lui - ma aveva quegli occhi.
 
..........................
.


 Ogni oscuro contadino
............................aveva abbandonato
............................quelle sue casupole nuove 
............................come porcili senza porci, 
............................su radure color della fame, 
............................sotto montagnole rotonde 
............................in vista dello Jonio profetico. 
............................Tre millenni passarono
non tre secoli, non tre anni, e si sentiva di nuovo nell’aria malarica 
l’attesa dei coloni greci. Ah, per quanto ancora, operaio di Milano, 
lotterai solo per il salario? Non lo vedi come questi qui ti venerano?
............................Quasi come un padrone. 
............................Ti porterebbero su 
............................dalla loro antica regione, 
............................frutti e animali, i loro 
............................feticci oscuri, a deporli 
............................con l’orgoglio del rito 
............................nelle tue stanzette novecento, 
............................tra frigorifero e televisione, 
............................attratti dalla tua divinità, 
............................Tu, delle Commissioni Interne, 
............................tu della CGIL, Divinità alleata, 
............................nel sicuro sole del Nord.
............................Nella loro Terra di razze 
............................diverse, la luna coltiva 
............................una campagna che tu 
............................gli hai procurata inutilmente. 
............................Nella loro Terra di Bestie 
............................Famigliari, la luna 
............................è maestra d’anime che tu
hai modernizzato inutilmente. Ah, ma il figlio sa: la grazia del sapere
è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forse dall’Africa
e tu ascolta ciò che per grazia il figlio sa. Se egli poi non sorride 
............................è perchè la speranza per lui
............................non fu luce ma razionalità. 
............................E la luce del sentimento 
............................dell’Africa, che d’improvviso 
............................spazza le Calabrie, sia un segno 
............................senza significato, valevole 
............................per i tempi futuri! Ecco:
............................tu smetterai di lottare 
............................per il salario e armerai 
............................la mano dei Calabresi.
............................Alì dagli Occhi Azzurri 
............................uno dei tanti figli di figli, 
............................scenderà da Algeri, su navi 
............................a vela e a remi. Saranno 
............................con lui migliaia di uomini 
............................coi corpicini e gli occhi 
............................di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sè i bambini, 
e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua. 
Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
............................Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, 
............................a milioni, vestiti di stracci 
............................asiatici, e di camicie americane. 
............................Subito i Calabresi diranno, 
............................come da malandrini a malandrini:
............................«Ecco i vecchi fratelli, 
............................coi figli e il pane e formaggio!»
............................Da Crotone o Palmi saliranno 
............................a Napoli, e da lì a Barcellona, 
............................a Salonicco e a Marsiglia, 
............................nelle Città della Malavita. 
............................Anime e angeli, topi e pidocchi, 
............................col germe della Storia Antica 
............................voleranno davanti alle willaye.
............................Essi sempre umili 
............................Essi sempre deboli 
............................essi sempre timidi 
............................essi sempre infimi 
............................essi sempre colpevoli 
............................essi sempre sudditi 
............................essi sempre piccoli,
essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare, 
essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi 
in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,
............................essi che si costruirono 
............................leggi fuori dalla legge, 
............................essi che si adattarono 
............................a un mondo sotto il mondo 
............................essi che credettero 
............................in un Dio servo di Dio, 
............................essi che cantavano 
............................ai massacri dei re, 
............................essi che ballavano 
............................alle guerre borghesi, 
............................essi che pregavano 
............................alle lotte operaie...
............................… deponendo l’onestà 
............................delle religioni contadine, 
............................dimenticando l’onore 
............................della malavita, 
............................tradendo il candore 
............................dei popoli barbari, 
............................dietro ai loro Alì
dagli Occhi Azzurri - usciranno da sotto la terra per uccidere – 
usciranno dal fondo del mare per aggredire - scenderanno 
dall’alto del cielo per derubare - e prima di giungere a Parigi
............................per insegnare la gioia di vivere, 
............................prima di giungere a Londra 
............................per insegnare a essere liberi, 
............................prima di giungere a New York, 
............................per insegnare come si è fratelli
............................- distruggeranno Roma 
............................e sulle sue rovine 
............................deporranno il germe 
............................della Storia Antica. 
............................Poi col Papa e ogni sacramento 
............................andranno su come zingari 
............................verso nord-ovest
............................con le bandiere rosse 
............................di Trotzky al vento...
.
Avvertenza (p: 515)
Fatti e personaggi di questo libro sono puramente immaginari ecc. ecc. Qualsiasi riferimento a fatti e personaggi reali è puramente casuale ecc. ecc.
[…]
Ringrazio anche Ninetto Davoli, per i suoi contributi linguistici involontari e soprattutto per la sua allegria: 
Ed ecco che entra nella platea un ossesso, con gli occhi dolci 
e ridarelli, 
vestito come i Beatles. 
Mentre grandi pensieri e grandi azioni 
sono implicati nel rapporto di questi ricchi con lo spettacolo, 
fatto anche per lui, egli col suo dito magro di cavallino delle giostre, 
scrive il suo nome «Ninetto», 
nel velluto dello schienale (sotto una piccola nuca orecchiuta 
contenente le norme del comportamento e l’idea della borghesia libera).
Ninetto è un messaggero, 
e vincendo (con un riso di zucchero 
che gli sfolgora da tutto l’essere, come in un mussulmano o un indù) 
la timidezza, 
si presenta come in un areopago 
a parlare dei Persiani.
 
I Persiani, dice, si ammassano alle frontiere.
Ma milioni e milioni di essi sono già pacificamente. immigrati, 
sono qui, al capolinea del 12, del 13, del 409, dei tranvetti 
della Stefer. Che bei Persiani!
Dio li ha appena sbozzati, in gioventù, 
come i mussulmani o gli indù:
hanno i lineamenti corti degli animali,
gli zigomi duri, i nasetti schiacciati o all’insù, 
le ciglia lunghe lunghe, i capelli riccetti.
 

Il loro capo si chiama:
Alì dagli Occhi Azzurri.
(1965)

lunedì 3 febbraio 2014

PHILIP SEYMOUR HOFFMAN

Ci sono partenze che colpiscono, lasciano l'amaro in bocca ed altre che lasciano indifferenti, quasi cinici in un mondo globale come il nostro dove tutto assume un'importanza enfatica in pochi secondi per lasciare presto il posto ad una nuova notizia più sconvolgente o semplicemente più importante. La morte di questo prezioso interprete rende tristi parte dei cinefili più sensibili perchè ci priva egoisticamente di una presenza fisica attoriale senza pari negli ultimi anni. Una carriera oculata, sapiente, rigorosa che anche in alcune scelte assai discutibili ha ripagato l'occhio dello spettatore attento, sorvolando sulla pellicola poco riuscita. Mi viene in mente come esempio quello zenit trash di "Flawless" con un Bob De Niro ormai decadente e sempre più maschera digrignante del suo mito offuscato. Anche lì, tra un mostro sacro in declino ed un folle regista autore di opere votate alla misera mediocrità, il nostro risplendeva di luce propria portando a casa come si dice la pagnotta. Normale che le vette fossero raggiunte in compagnia di autori capaci di affidargli ruoli memorabili a partire dal goffo insegnante nella "25 ora" di Spike Lee, passando dal rigido e oscuro fratello nell' "Onora il padre e la madre" di Lumet, fino ad arrivare all'acclamato tour de force dell'ultimo "The master". In mezzo il delicato e sensibile infermiere interpretato in "Magnolia", prova di assoluta misura e dolcezza, controcanto al nervosismo scattante del Cruise figlio sessista. Senza dimenticare la metamorfosi strabiliante che lo ha portato a vincere l'Oscar per il ruolo di una vita per "Capote". Difficile immaginarselo a lottare con il demone della droga, sempre misurato e docile nelle interviste, nelle uscite pubbliche e in quella stazza così poco radical-chic da essere amato dai più, da essere ricordato da tutti senza magari saperne il nome un pò complesso. Un attore completo, un caratterista capace di cambiare il vento dei sentimenti anche in piccoli camei; un artista che mancherà a chi ama il cinema di qualità. Manteniamo vivo il suo ricordo, il suo prezioso lavoro ammirandone l'intensità e la coinvolgente passione attraverso le performance eccezionali che ci ha regalato. Addio Philip Seymour Hoffman e grazie di cuore.

"Non m'importa cosa dice la gente di me, finchè non è vero."
Truman Capote