lunedì 10 febbraio 2020

1917

La grande guerra.
Mio nonno materno, cavaliere del '99, come erano chiamati i giovani nati nel secolo prima e divenuti maggiorenni in trincea, la visse in prima linea soppravvivendo fingendosi morto in mezzo ad una pila di cadaveri amici.
Mio nonno Pietro morì quando io avevo 3 anni; non feci tempo a sentire narrare questa ed altre vicende inerenti il conflitto ma rimasi sempre colpito, affascinato, sedotto da questo racconto. Io che non ho neppure fatto il militare, che non mi è mai mancato un piatto pieno in tavola, che non ho mai patito il freddo dell'addiaccio. Io che forse sono stato fortunato a crescere alla fine del secolo degli orrori. Io che fatico oggi a riflettere su ciò che è stato perchè nel qui e ora tutto va veloce, senza direzione, senza anima; l'età dell'abbondanza.
Se la seconda guerra mondiale ha lungometraggi importanti e famosi che l'hanno raccontata a partire da Spielberg, Polanski, Malick, la guerra precedente ha meno impatto sullo schermo anche se basterebbe Kubrick a riequilibrare la schermaglia. Un plauso quindi a Sam Mendes per aver riportato con forza il primo conflitto mondiale nei cinema, aggiornandolo con la migliore tecnica della nostra epoca.
Mi permetto solo di ricordare, per dover di cronaca,  una piccola gemma di casa nostra riguardante il tema che uscì qualche anno fa; la gelida trincea e lo spirito cameratesco di una pellicola di un grande maestro come Ermanno Olmi, noncurante della sua età anagrafica: "Torneranno i prati".
Tutto passa, l'orrore, il sacrificio, l'angheria, la belligeranza per lasciare spazio alla forza della natura, del tempo, dell' oblio. Dove sono morti uomini, animali, piante, terra, rifioriscono i prati con ciò che potranno far crescere in quel momento. Tutto passa... Ma a quale prezzo?
Ritorniamo al blockbuster di Mendes, perchè di questo stiamo parlando prendendola alla larga. Di un'opera pensata per il botteghino ma con mire di altro tipo. Qui per mio conto vi è il cuore del dibattito tra chi apprezza e chi storce il naso. Ma credo sia un falsopiano; una trincea poco fangosa alla quale succede una prateria verde di speranza, rispedita indietro da un aereo nemico in collisione mentre una solitaria mucca pascola indifferente.
Tutto parte dai ricordi del nonno del regista ed il materiale raccolto forma una sceneggiatura che trasforma un viaggio tra le linee nemiche in un tour de force per evitare una trappola ben congegnata dai maledetti tedeschi.
Pur non essendo ancora nazisti il film non fa mistero, grazie ai capitali della Dreamworks di Spielberg, di rappresentarci il nemico senza sfumature mentre gli inglesi paiono quasi sempre più italiani brava gente...
Non c'è tempo per soffermarsi su queste quinsquillie perchè il pregio della visione sta nella velocità degli accadimenti, nella densità dei fronti toccati. Qui si erge come un monolite la capacità del regista di ricreare diversi fronti, diverse battaglie, diverse sfide che pennella con differenti scelte tecniche, fotografiche ed artistiche.
Partendo dalla sfida più grande, ovvero la scelta straordinaria e mostruosa di far percepire allo spettatore un unico, lungo, interminabile, incredibile piano sequenza per l'intero arco narrativo.
Una sfida vinta in toto. Un monumento titanico al cinema d'oggi e di sempre.
Va bene Innaritu con "Birdman" ed altri straordinari piani sequenza della storia del cinema, Orson Welles docet, ma scegliere questa particolare tecnica di ripresa per un film d'azione, sempre in location esterne, con la videocamera attaccata al protagonista è una vera sfida contro sè stessi.
Un plauso ed una standing ovation a Mendes per la pazienza, la passione, la volontà di cullare e realizzare comunque un'opera che rimarrà negli occhi degli spettatori a lungo. Chapeau.
Questa peculiarità è preziosa, vivida, travolgente. In una parola sola è cinefila.
Ed è importante focalizzarla perchè anche se è esibita ed esplicita rischia di oscurare il resto per miopia, per ricerca ossessiva di un equilibrio tra narrazione ed immagini. Ma le stesse immagini impresse sulla celluloide sono già di per sè narrazione? Provate a pensare a 1917 senza dialoghi... Touchè!
Per molti solo un esercizio di stile senz'anima. Ma che anima può avere una rincorsa contro il Tempo, contro gli orrori, contro sè stessi?
Il film di Mendes non è un capolavoro quanto non lo era "Dunkirk" di Nolan ma un atto d'amore per questa immensa arte che nonostante l'imbarbarimento culturale rimane a galla combattendo una sua piccola guerra tra blockbuster, film intimisti, piattaforme streaming e frammentazioni online.
Giovani strappati dalle loro famiglie, dalle loro terre, che devono pensare di tornare esclusivamente dai propri cari, stringendo in mano, al cuore una fotografia sbiadita di chi impotente li attende con ansia a casa.
In una realtà talmente diversa dalla nostra odierna che non si riesce neppure a capire di striscio; come le innumerevoli pallottole che rincorrono i protagonisti in una guerra che ha fatto più morti per baionetta che altro. Pensate ad uccidere un vostro simile seppur nemico con un fucile dotato in appendice di uno spadino...
Fango, trincee formicolanti o abbandonante, topi, pantegane, cadaveri, cavalli putrefatti, distese sabbiose. La sola volontà in mezzo di rimanere vivi e combattere per tornare a casa. La grande guerra; la seconda guerra mondiale; il Vietnam; la Corea; e via così. Ma che sia Apocalypse Now o il soldato Ryan o 1917 l'obbiettivo è ritornare al focolare. Sempre esista ancora una casa fisica o mentale. Vedi alla voce "Cacciatore" o "Nato il 4 luglio"...
In sintesi il film di Mendes lungi dall'essere perfetto ha un obbiettivo che centra in pieno tra tecnica e racconto. Manca un pò di cuore ma non si può con forza rimproverarglielo perchè il tempo della narrazione e l'elaborazione dei fatti non avevano tempo. E sottolineo ancora una volta che il Tempo, come in "Dunkirk", ha il suo ruolo e soprattutto il suo contesto.
Tra le splendide immagini scelgo la risalita faticosa dal fiume calpestando cadaveri gonfi e irriconoscibili per assistere esausto ad una sinfonia di gruppo decantata da una voce soave, delicata, aliena. La poesia che squarcia l'orrore, che rappacifica, che riconsegna umanità. Nel rapimento mistico e sensuale del momento splende vivace l'inno ad una vita possibile, sognata, sperata.
La grande guerra.
Già ora bistrattata. Lode a Mendes per averci provato. Per averci portato in trincea.
Lode al mio nonno conosciuto da piccolino e di cui memoria non possiedo più.
Oggigiorno altre sono le nostre guerre quotidiane, piccole e grandi che siano, così lontane, così devianti.
Non c'è bisogno di un' enfasi della guerra ma bisogna ricordare, trasmettere ciò che è stato per non dimenticare a noi stessi cosa siamo diventati. Piaccia o no dal nostro passato si proietta il nostro futuro


Su quella collina alla fine del film ci sediamo tutti intorno per sperare che il ritorno a casa sia un atto di speranza, di fede, più che un addio, un arrivederci.
Ed una medaglia scambiata per una bottiglia di vino può figurare un atto sciocco ma quanta verità c'è in un sorso di quel nettare, in quel momento, forse l'ultimo.
Altresì quanta strana malinconia mi passa in testa ricordandomi la medaglia al valore del mio nonno sopravvissuto sul fronte del Piave.
La Grande Guerra.
La nostra grande guerra nel tentativo disperato di tenere vivo il ricordo, lo spirito di sacrificio, la volontà di una generazione di uomini oramai così lontana, così fuori fuoco, così abbandonata da indurci a riflettere di fronte un'opera di finzione del genere che sembra un videogame, una rappresentazione distorta di quell'epoca, una congegnata immagine del mito.
Nella sua generosità, nella sua pretenziosità, nel suo racconto fluido anche se leggermente sovraccarico, questo film mantiene viva un'idea che oggi sembra superata, vetusta, estranea.
Il grande spettacolo del cinema sul grande schermo diretto da un abile regista britannico con capitali statunitensi.
Da un compromesso politico e finanziario il meglio che si poteva ambire.
Il Piave mormorò...

Testo de “Il Piave mormorava”


Prima strofa:
Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
Dei primi fanti il ventiquattro maggio:
l’Esercito marciava per raggiunger la frontiera,
per far contro il nemico una barriera.
Muti passaron quella notte i fanti;
tacere bisognava e andare avanti.
S’udiva intanto dalle amate sponde
Sommesso e lieve il tripudiar de l’onde:
era un passaggio dolce e lusinghiero.
Il Piave mormorò: “Non passa lo straniero”.

Seconda strofa:
Ma in una notte triste si parlò di tradimento**,
e il Piave udiva l’ira e lo sgomento.
Ahi, quanta gente ha visto venir giù, lasciare il tetto,
per l’onta consumata a Caporetto!
Profughi ovunque! Dai lontani monti
Venivan a gremir tutti i suoi ponti.
S’udiva allor dalle violate sponde
Sommesso e triste il mormorio de l’onde:
come un singhiozzo in quell’affanno nero.
Il Piave mormorò: “Ritorna lo straniero”.ù

Terza strofa:
E ritornò il nemico, per l’orgoglio e per la fame
Volea sfogar tutte le sue brame.
Vedeva il piano aprico di lassù: voleva ancora
Sfamarsi e tripudiare come allor…
“No” disse il Piave, “No” dissero i fanti,
“mai più il nemico faccia un passo avanti”.
Si vide il Piave rigonfiar le sponde!
E come i fanti combattevan le onde.
Rosso del sangue del nemico altero,
Il Piave comandò: “Indietro va’ straniero!”.

Quarta strofa:
E indietreggiò il nemico fino a Trieste, fino a Trento
E la Vittoria sciolse le ali al vento.
Fu sacro il patto antico: tra le schiere furon visti
Risorgere Oberdan, Sauro e Battisti.
Infranse alfin l’italico valore
Le forche e l’armi dell’impiccatore.
Sicure l’Alpi… libere le sponde
E tacque il Piave: si placaron l’onde.
Sul patrio suol, vinti i torvi imperi,
la pace non trovò nè oppressi, nè stranieri