giovedì 7 novembre 2019

THE IRISHMAN

Una cipolla.
Tutti la usiamo in cucina per impreziosire piatti succulenti, per dar gusto, per animare il palato. Avete mai sbucciato una cipolla? Al di là della commozione indotta dall'infiammazione dell'iride si presenta in strati sempre più teneri ed intensi. Tanto che di solito la buccia si butta direttamente nell'organico.
Martin Scorsese per noi cinefili incalliti è la cipolla della settima arte.
Non perchè si adatti a qualunque piatto ma perchè con la sua maestria da sempre insapora il menù, ricco o meno che sia. Anche nelle opere meno riuscite è difficile non trovare uno o più spicchi della sua immensa bulimia culinaria, immaginifica. Un Tarantino antelitteram. Un "classico" in vita. Il Regista.
Non si può non amare questo cineasta per ciò che ha espresso negli anni generosi della sua maturità artistica. Non è difficile vedere nel Joker di Phoenix il Travis Bickle di Taxi Driver. Non a caso la scelta della produzione della fortunata pellicola, genesi della nemesi di Bruce Wayne, di ambientarla nei fecondi anni 70.
Veniamo all'oggi. Scorsese culla il sogno di una reunion, di un canto del cigno per il genere che lo ha consacrato con pietre miliari come "Goodfellas" e "Casinò" ma necessita di un cast strepitoso e di tanti soldini per far le cose per bene. Ecco entrare con capitali freschi Netflix, non nuova ad operazioni del genere soprattutto dopo il meritorio recupero del montaggio di un Orson Welles d'annata piuttosto che il successo suggellato agli Oscar di Cuaron con "Roma".



Con il grano in saccoccia il buon Martin può fare la spesa e imbandire la tavola con i commensali a lui cari. Il pranzo è servito? Eccome! Dall'antipasto che richiama le pellicole sopracitate si passa ai primi e secondi che nel suo stile puro presentano piatti semplici ma farciti d'ingredienti sapientemente cotti, cucinati a dovere. Ma questa volta il dolce manca. Alla festa iniziata quasi trent'anni fa con ascese italoamericane allo scranno della Mafia si sostituisce la lenta agonia di una casta che per perdurare mangia e digerisce sè stessa, senza più voracità ma con freddezza disumana. La violenza elegiaca di allora si trasforma in veloce esecuzione chirurgica. Fino all'atto finale, al non ritorno, al Padrino senza anima.
Scorsese sceglie sorprendentemente un registro televisivo per salutare la sua brigata, quasi sia Netflix stessa a suggerirglielo, piuttosto che imporglielo. La sua regia geometrica, barocca, purista si piega al formato del piccolo schermo non rinunciando però alla ricchezza di un accurato montaggio che risalta la prova degli attori, amalgamando come solo i grandi chef sanno fare le varie portate del menù. Molti non ricordano che il regista americano per eccellenza non è un autore. Lui trasforma le idee di altri, le elabora per immagini, le spoglia, le impreziosisce. Con un suo ritmo, con una sua idea di cinema in movimento. Un'artista fa questo a prescindere dalle critiche. E Scorsese verso il suo tramonto abbandona sorprendentemente la sua cifra per piegarsi al nuovo mezzo. Lo piega alla storia che racconta. Qui non si fa un capolavoro, ma si partecipa ad un'elegia; potente, nichilista, necessaria.
Sapendo di avere ingredienti di prima qualità lascia spazio ai primi e medi piani per salutare al meglio la meglio gioventù di una volta.
Tra un Pacino gigione nel sanguigno ruolo di Hoffa, un Pesci ritornato, rinato, donato allo spettatore adorante, la grande e definitiva performance appartiene al preferito di sempre: un Bob De Niro capace d'indossare una maschera di misura e distacco che suggella dopo anni di pessimi ruoli la capacità di riscatto totale. Qui veramente si fa Cinema. Non importa il mezzo, nemmeno lo streaming, neppure le polemiche fittizie sulla distribuzione sul grande schermo.
Al grido di capolavoro si vende la merce in questo mondo globale e tecnologico.
Ci drogano con cultura scadente, ammuffita, nel migliore dei casi reinventata. Il microonde.
Qui il nostro alfiere ci offre una grande abbuffata che ci lascia con il sapore amaro; quella sensazione che dall'inizio di quest'opera così malinconica, o meglio rattristante, narra di grandi amicizie, di destini scritti, di favori richiesti.
La Mafia attraversa la storia americana, si adatta, si trasforma, si sacrifica, si trasmuta. E gli stessi uomini che un tempo si glorificavano nella violenza e nel potere qui attraversano la vita con lo scopo di preservare il proprio posto senza dare spazio significativo alla famiglia, ai figli, al futuro. La preservazione della specie, neppure la prosecuzione. Il nichilismo al potere. Irishman non si pente, non tradisce, non emoziona. La figlia lo giudica costantemente fin da piccola. E' uno specchio dove non ha mai il coraggio di riflettersi. Fino alla fine. Non c'è spazio per la redenzione, nè per la pietà.
Molti si aspettavano un ruggito del regista che fu. Altri un 'ennesima beatificazione dei suoi personaggi più famosi.  Martin ha preferito il viale del tramonto.
"Quello che va fatto deve essere fatto...". Un imbianchino fa sempre la sua figura.
Possono scrivere che dura più del dovuto, possono scagliarsi sul ringiovimento digitale degli attori, possono attaccare la regia piatta, televisiva, possono urlare che non è un capolavoro.
Possono sbraitare quanto vogliono ma pochi dicono che questo è il migliore Scorsese degli ultimi anni, concentrato sui suoi personaggi, sulle storie, sulla Storia, sulla mortalità delle idee.
Non rimarrà scolpito nel tempo, ma probabilmente sarà il suo canto del cigno.
Nel suo habitat naturale. Un'oasi senza più miraggi, nè predoni. Una grande pozzanghera dove le anime non cercano neppure scampo. O se lo fanno è tardivo.
Se questo non è grande cinema senza esserlo ditemi cosa siamo diventati. Pretese. Aspettative.
Da fine mese su Netflix. Guardatelo. Poi odiatemi o voletemi bene. Ma guardatelo. Con impegno. Altrimenti tanto vale accontentarsi dei vari Joker.
Il cuore della cipolla.
Gustatelo. Ma prima di arrivarci vi tocca la buccia e qualche strato meno saporito.
Re per una notte.
Re per sempre.

"Sul sentiero tra le dune ho incontrato mia madre,
 lei però non mi ha visto. Parlava con un'altra
 signora e ho sentito che diceva: tutti
 qui mi trovano simpatica.

 Sapevo che era vero per il rumore
 delle conchiglie sbriciolate sotto i suoi piedi.
 Poi ho visto mio fratello e il mio fratellastro
 in cammino con il mio stesso passato,

 caos e inquietudine. Il Mare del Nord schiumava
                  selvaggio.
 Attraverso di loro vedevo il sentiero. Vorrei trovare
                ora un tesoro,
 un dente di narvalo portato a riva, o dell'oro,

 e tutto tornerebbe a posto."

                                                                                 Cees Nooteboom

lunedì 7 ottobre 2019

ONCE UPON A TIME IN... HOLLYWOOD

Quentin Tarantino.
QUENTIN TARANTINO.
Insieme a P.T. ANDERSON il più grande narratore americano della nostra storia filmica recente.
Scrive, dirige, cita, si autocita, incensa, s'incensa, trasforma, si trasforma, trasfigura, si trasfigura. Fa sempre lo stesso film, rifacendolo. Marchia con il suo inconfondibile tocco, reinventandolo. I critici più miopi aspettano un suo tonfo, i fan lo adorano, gli spettatori lo premiano, i cinefili lo difendono.
Il motivo di tanto interesse si vede in ogni sua opera proiettata sul grande schermo, in ogni canzone suonata dalle casse incassate in sala, in ogni dialogo pronunciato dai "suoi" attori. Come per i grandi maestri del passato Tarantino ama i suoi protagonisti coccolandoli in lunghi primi, medi piani quasi onirici; loro lo ripagano con performance sempre al di sopra della loro calatura, dimostrandogli affetto e riconoscenza.
Di Caprio e Pitt si presentano ai nostri occhi come i divi che da tempo conosciamo per scivolare lentamente nei loro personaggi, nelle loro ossessioni, nel loro personale viale del tramonto. Ambientato in un' epoca spensierata e profilica del cinema di Hollywood il regista sceglie il mondo del filone dei cosiddetti film di serie B per travolgerci amorevolmente con la sua passione in merito. Tra titoli veri, presunti, o reinventati la citazione perennemente latente degli spaghetti-western nazionalpopolari adorati dal nostro.
Difficile non notare che nell'episodio centrale del film, ove Di Caprio cammuffato in modo alquanto ironico somigli molto al Franco Nero di Django...
Ma questi al solito per gli scrupolosi spettatori sono giochi(ni) di specchi (per le allodole?!) che impreziosiscono il quadro d'insieme.
Stimoli ed imput disseminati in tutte le sue opere così dannatamente generose da divenire a volte elefantiache per brevi momenti.
Ma dopo l'ultimo western lento e gore qui troviamo leggerezza e scanzonata volontà di omaggiare ancora una volta, più che un genere, un periodo.
Per affinità puramente emotive in qualche modo mi ricorda l'amorevole atto di risarcimento verso un filone, incarnato dalla chimera Pam Grier, in quel piccolo capolavoro di "Jackie Brown". Non a caso venuto dopo la pioggia di premi, riconoscimenti, adulazioni per Pulp Fiction. Il nostro sa decellerare ma soprattutto piega con volere e potere commerciale la sua autorialità al pubblico senza rendere conto, o minimamente, ai suoi finanziatori.
Caso più unico che raro a Hollywood. Caso chiuso. Lunga vita a Quentin.
In tutto questo andirivieni da set confusi, case sfarzose, alcool invitante tra sedani e carote, c'è spazio per la Storia. Come in Bastardi ed in Django il mastro dirimpettaio deicide di affiancare il racconto di quegli anni con la tragedia protagonista la Tate, Polanski e la setta di Manson. Al solito lo fa a modo suo piegando le correnti narrative in salsa pop, pulp, porn ad una trasfigurazione oscena della realtà, accettabile unicamente per la potenza fascinosa di una costante messa in scena continua, finta, paradossale, enfatica, ma così dannatamente funzionale. Un romanzo esplosivo. Una parabola discendente con lieto fine. Un' ennesima riscrittura di una storia, non la Storia, con un' elegante escamotage, con la geniale riscrittura tarantiniana di un possibile finale alternativo. Un omaggio delicato, sentito, generoso a un mondo esploso nella notte dell'efferato omicidio di Sharon Tate e del bimbo in grembo che Tarantino da grande affabulatore sa essere spartiacque tra un C'era una volta e dopo.
Sinceramente, ancora una volta, non comprendo come si possa richiedere di più ad un'opera di tal genere, ad una filmografia particolare, unica, appassionata quale quella di questo immenso regista, narratore.
Plasmare storie è cosa da professionisti.
Reinventare storie è cosa da studiosi.
Integrare storie con fiction è cosa da artisti.
Mettere d'accordo pubblico e critica è cosa da acrobati.
Riuscire ad essere sè stessi trasmutando è cosa da trapezisti.
QUENTIN TARANTINO è un passionario e un ricercatore che ama il Cinema, lo onora, lo plasma e ce lo vomita in ogni sua opera in una cottura diversa, più o meno misurata, ma sempre attenta a non essere indigesta.
E quando lo è a tratti lo si scusa per la sua immensa generosità.
Lunga vita al Re.
Lunga vita ad un cinema che si racconta senza logiche commerciali, senza confini, senza paura.
Tate/Robbie coricata al cinema che rivede sè stessa sullo schermo con primo piani dei piedi annessi è l'essenza della firma del regista come i dialoghi a volte prolissi in situazioni specifiche e poco avvezze al pubblico pagante ma su queste ricamature autoriali il trave portante è altro.
E' il Cinema.
L'amore per lo schermo, per la narrazione, per l'arte di saper coinvolgere.
Mettiamo questa arte da parte come la sigaretta senza filtro imbevuta d'acido.
Un giorno, non lontano credo, apriremo lo scrigno dei ricordi ed in mezzo ad altre riconoscendola, fumandola con lunghi boccate, ci abbandoneremo
al suo effimero gusto, alla sua transitoria essenza.
Può essere ci salvi la vita come con Cliff... Ma meglio imparare anche a schioccare il palato e nel contempo saziare la fame di un mastino dei migliori.
Come in "Vizio di forma" di Anderson con uno straordinario Phoenix gli hippies ci salveranno o ci condanneranno. Come il Drugo dei Coehn.Come Manson e la sua setta. Come miriadi di personaggi prima e dopo.
Lunga vita ai narratori!
Once upon a time...

lunedì 30 settembre 2019

APOCALYPSE NOW The Final Cut

The horror... The horror...
Si chiude come un cerchio disegnato sulle note dei Doors ciò che tre ore prima si era aperto sulla stessa "fine" prima del viaggio del capitano Willard.
La terza e definitiva versione del capolavoro di Coppola è la sintesi perfetta della sua opera monstre, grazie al sapiente montaggio e alllo straordinario recupero dei suoni originali attraverso una nuova rimasterizzazione. Difficile rimanere indifferenti alle esplosioni delle bombe piuttosto che alle eliche degli elicotteri; ancor meno alla famosa scena supportata dalla Cavalcata delle Valchirie. Ma stupisce ancor di più le mosche che gironzolano incessanti sul fiume ed intorno alla testa liscia, quasi un richiamo ad "Alien", di dio Brando.
Dettagli che impreziosiscono il quadro d'insieme, un "Cuore di tenebra" che costò caro al regista italoamericano per poi diventare un cult assoluto nella storia del cinema.
La sintesi tra la versione originale del 79 ed il Redux del 2001 è un compromesso tra minutaggio e montaggio che avvalora la prima e allegerisce la seconda, mantenendo l'ampia parentesi politica francese senza eccessive zavorre narrative. Proprio questa scelta sancisce la supremazia di questa versione introdotta dallo stesso Coppola a distanza di 40 anni dall'uscita ufficiale come non la migliore, ma lo è, ma come quella che con il filtro del tempo lui avrebbe voluto presentare da subito.
Per chi non conosce la genesi di questa mastodontica opera filmica rimando al libro della moglie Eleanor Coppola piuttosto al documentario di sua stessa realizzazione "Viaggio all'inferno", non facilmente reperibile ma esauriente per le vicissitudini affrontate dalla troupe. Un film nel film.
Operazione commerciale o meno non si può che godere della possibilità oggi di rivedere classici senza tempo sullo schermo cinematografico ancor più in questo caso valorizzato da una proiezione in versione originale con i sottotitoli. Possiamo avere i migliori doppiatori del mondo ma non si può sostituire minimamente le inflessione recitative di un qualsiasi Brando/Kurtz. In più molti non sanno che il doppiaggio per forza di cose soffoca quasi sempre il suono circostante o lo limita riducendo comunque la nostra percezione del girato originario. Attraversare il fiume fino la Cambogia piuttosto vivere l'episodio dell'apparizione della tigre nella giungla non ha eguali per coinvolgimento e pathos.
Sul senso dell'opera in quattro decadi molti hanno scritto frasi, righe, parole più illuminanti di quello che posso esprimere oggi ad un giorno dalla visione.
Rimane come sempre di fronte questi totem benedetti la straniante sensazione di essere di fronte a qualcosa di irripetibile, unico e trascendentale. In un 'epoca come la nostra incapace, nonostante la tecnologia, di ambire a pellicole culturali ma altresì commerciali l'apocalisse di Coppola rimane pietra di paragone di un cinema estremo, allucinante, sapiente. Un miracolo di equilibrio e sintesi in un viaggio di tre ore in una guerra assurda, in situazioni assurde, in un caos disordinato che in qualche modo con fini astuzie narrative abbraccia la vita intera. Noi spettatori ci riconosciamo in Willard volendo essere Kurtz.
Animali e dei.
Il nostro cuore. Le nostre tenebre.
Conrad aveva visto lungo e Coppola lo ha reso vivo più che mai.
L'immenso Kurtz/Brando con il suo elefantiaco carisma va a braccetto con l'utopica conquista di Fitzcarraldo/Kinski. Cinema di altri tempi, prove fisiche ineguagliabili.
Su quel fiume verso un non luogo tutta la vita e la morte scorrono davanti in un straordinario percorso che solo il perfetto incontro tra narrazione, immagini e suono può raccontare in una storia di meri fallimenti.
Ma come Kurtz ripete a qualcuno tocca questa infame parte nel continuo macabro percorso umano. Cercando la luce nella poesia, nella luce, nella riflessione.

Una luce mai più così splendente ed avvolgente grazie al lavoro del maestro Storaro.
Apocalypse Now è un viaggio dentro noi stessi.
Con cuore, nelle tenebre.
Non si torna indietro, ci si
trasforma.
L'orrore a volte necessario ha un prezzo disumano, catartico ma profondamente segnante.
Tutto è scritto ma tutto in questa immensa opera è dannatamente potente.
The end...